Natalie Portman, intervista alla regista e attrice di Sognare è vivere: "Essere madre mi ha aiutato a capire Fania e a non capirla al tempo stesso"
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Natalie Portman intervista
"Avevo ventisei anni quando ho cominciato a pensare al progetto". Natalie Portman, 35 anni, debutta alla regia con Sognare è vivere, basato sul best seller autobiografico Una storia di amore e di tenebra, scritto dall’israeliano Amos Oz. Una storia intensa che rappresenta per l’attrice, qui anche interprete, produttrice e sceneggiatrice, una ricerca delle sue radici.
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Nata a Gerusalemme, a tre anni si trasferisce negli Stati Uniti, portandosi dietro una importante identità culturale. "Il romanzo è così commovente e meravigliosamente scritto. Molti dei racconti mi appartengono: erano familiari. Ho sentito tante storie sui miei nonni e sui loro rapporti con i libri, sulla loro passione per la cultura e per le lingue, per l’Europa e per Israele", confessa. Il film, al cinema dall’8 giugno, racconta l’infanzia di Amos Oz, il rapporto con la fragile madre Fania, scomparsa tragicamente. E la nascita del futuro scrittore, dovuta al tremendo vuoto che lascerà in lui.
Eclettica, di una bellezza eterea, l’ex bambina prodigio, che esordì a 12 anni in Leon, rappresenta quasi la perfezione. Passa con disinvoltura dai blockbuster a pellicole indipendenti e intanto si prende una laurea in Psicologia ad Harvard. Oscar come Miglior attrice nell’acclamato Il cigno nero di Darren Aronofsky, Natalie Portman non si ferma mai. Infatti la rivedremo presto nel film On the Basis of Sex dove interpreterà Ruth Bader Ginsberg, la prima giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti di religione ebraica che si è occupata dei diritti delle donne, promuovendo la parità dei sessi.
Cosa ha amato di più leggendo il libro di Amos Oz?
E’ una storia molto israeliana, ma è anche di emigrazione, che parla a tutte le culture. Racconta l’idealizzazione dei luoghi in cui ci si deve trasferire, mentre si è nella propria terra e dell’idealizzazione di quest’ultima quando si è lontani. Quello che Amos ha fatto con questo meraviglioso libro è trasmettere l’amore, la compassione e l’empatia nei confronti delle persone che hanno fatto parte della sua vita. È un’esplorazione dei personaggi priva di giudizio
Natalie Portman veste i panni di Fania, la fragile madre di Amos. Come è entrata nel personaggio?
Fania è una donna cresciuta nell’idealizzazione romantica di Israele. Fania da piccola, a Rovno, si culla in sogni di arte, di sionismo, di letteratura e ha una visione romantica del mondo. Poi la vediamo come giovane madre in Palestina, dove comincia ad affrontare le difficoltà, ama suo figlio e la vita, ma comincia a risentire del peso della storia e della situazione politica. I suoi errori, il matrimonio, le occupazioni femminili, la frustrazione delle sue aspirazioni artistiche, l’insieme di queste cose la trascina in un buco nel quale sprofonda. E noi assistiamo a questa sua trasformazione.
Anche Fania, una giovane donna che ama i libri, le storie e le lingue, vive di parole?
E’ come se lei vivesse all’interno di un romanzo russo. I libri che si leggono, i film che si guardano, le storie che si ascoltano, crescendo, influenzano il modo in cui si vede il mondo e la relazione con le persone. Se cresci con commedie romantiche o storie di fantasia, il tuo mondo è diverso e a Fania la lettura della letteratura russa – Céchov e Tolstoj – trasmette una forma di desiderio molto passionale, alla ricerca del perduto amore.
Nella vita è madre di due bambini, come ha compreso la tragica scelta di Fania?
Essere madre mi ha aiutato a capire Fania e a non capirla al tempo stesso. Non puoi immaginare di separarti da tuo figlio. Ma ti rendi conto quanto sia complicato essere madre e come cambia la tua identità. È qualcosa di meraviglioso, ma è una grande sfida. Sono fortunata a non trovarmi nelle circostanze in cui viveva lei, ma, da madre, è comunque difficile pensare alla scelta che ha fatto.
Amos cresce chiedendosi il perché del tragico gesto della madre.
La domanda sul come Fania si perda è la stessa che Amos si è posto nel corso di tutta la sua vita ed è quello che ha fatto di lui un narratore. È dovuto tornare indietro nella memoria per vedere cosa è accaduto e dove le cose non hanno funzionato, dove lei ha lasciato indizi, perché era un mistero anche per lui e non ci sono riposte chiare. È come convivere sempre con un punto interrogativo. È brancolare nel buio. Questo abbandono così assurdo è devastante. Ma è anche un’opportunità che lui ha riempito con parole e storie.
Che esperienza si è rivelata, invece, scrivere anche la sceneggiatura?
Mi piaceva starmene in una stanza da sola con le parole, cambiare le cose, farmi venire nuove idee. Poi mi sono resa conto che quando devi metterle in pratica, tutto diventa più difficile.
E’ il suo primo film da regista, come è stato vedere i personaggi prendere vita?
All’inizio ero molto nervosa. Ho girato 35 -40 film nella mia vita e ho visto accadere cose bellissime, ma anche terribili. Perché, da regista, ne sei responsabile. L’importante è rispettare le persone sul set, garantire loro sicurezza e serenità, poi puoi chiedere il massimo. E’ stata un’esperienza fantastica.
Quale è stato il suo approccio?
Come attrice, apprezzo molto un regista che mi permette di sperimentare. Amo le espressioni naturali delle persone. Cercare di trasformare qualcuno in qualcosa di diverso, significa frenarlo e metterlo a disagio. Prima mi piace vedere cosa fa spontaneamente. Quando dirigi qualcun altro devi trovare il modo giusto di far capire la tua idea, con tatto e cercando di suscitare la giusta reazione.
E’ nata e vissuta in Israele fino a quando aveva tre anni, insieme a suo padre israeliano e sua madre americana.
I miei genitori mi hanno mandato in una scuola ebraica fino ai miei tredici anni. Mezza giornata era in ebraico e l’altra mezza in inglese, così ho potuto leggere e scrivere in ebraico, ma non lo parlavo benissimo, perché ci concentravamo soprattutto su lettura e scrittura. Poi mi sono nuovamente trasferita in Israele quando avevo venticinque anni per un corso di specializzazione e ho imparato a parlarlo bene, anche perché uscivo e trascorrevo del tempo con gli israeliani, nei bar, alle feste. Il modo migliore per imparare una lingua.
Si sente più vicina alla cultura israeliana o a quella americana?
Io sono israeliana e americana, ma culturalmente sono più americana perché è lì che sono cresciuta – la musica, gli spettacoli che guardavo in TV, i libri che ho letto, è tutta la mia parte americana. Ma la mia identità culturale è molto israeliana. Sono un po’ straniera in entrambi i luoghi. C’è sempre stato questo strano aspetto: l’ebraico è la mia lingua madre, ma per me rimane una lingua strana perché non è quella con cui sono cresciuta. Quindi non è la lingua con cui sono più a mio agio, i miei primi ricordi dovrebbero essere in quella lingua, ma prima dei tre anni è difficile ricordare. Quindi nel mio profondo c’è un mistero.